PROTAGONISTI – DALLA PARTE DEGLI EDUCATORI

Chi sono gli educatori che lavorano nelle strutture di accoglienza per migranti? Uomini e donne che svolgono un lavoro molto delicato, mettendoci però sempre cuore e professionalità. Questa è la [...]

Chi sono gli educatori che lavorano nelle strutture di accoglienza per migranti? Uomini e donne che svolgono un lavoro molto delicato, mettendoci però sempre cuore e professionalità. Questa è la storia di Dino Garrafa che lavora a “Casa di Ismaele”, SPRAR per MSNA nato a Rogliano nell’ambito del programma Fare Sistema Oltre l’Accoglienza

Dino come hai iniziato a fare l’educatore?

Ho iniziato quasi per caso trent’anni fa. Ero un animatore teatrale e mi hanno proposto di organizzare uno spettacolo in una comunità terapeutica. È stato il primo passo. Ora lavoro a “Casa di Ismaele”, un progetto SPRAR per minori stranieri non accompagnati.

Ti ricordi il primo giorno? Cosa hai provato?

Ero giovanissimo, avevo poco più di vent’anni e una grande paura. C’era questo spettacolo teatrale da organizzare ma le comunità terapeutiche all’epoca non erano strutturate, erano esperienze pionieristiche volute da qualche sacerdote e qualche volontario. Stavamo in un rudere attiguo a una chiesa con dei ragazzi tossicodipendenti di Napoli.  Sono stato là tre mesi. Si condivideva tutto, senza nessuna distanza: il pranzo, il lavoro… Dopo tre mesi sono andato via perché pensavo di non farcela. Poi sono ritornato. E da allora è stato il lavoro della mia vita.

Com’è il tuo rapporto con i ragazzi di “Casa di Ismaele”?

Il mio rapporto con i ragazzi è cambiato con il tempo. Ho dovuto imparare a costruire distanze sane, quelle che ti permettono l’azione educativa. Prima ero giovane e i ragazzi che incrociavo erano giovani anch’essi. Adesso mi chiamano “zio”, in arabo “amm”: la distanza di età si sente. Cerco di rispettare le loro scelte e i loro progetti di vita, i loro desideri e i loro sogni.

Ci sono delle storie – delle tante che hai incontrato – che ti sono rimaste di più nel cuore?

Ricordo un ragazzo molto giovane che durante il trattamento riabilitativo dalla tossicodipendenza si era innamorato di una ragazza anch’essa tossicodipendente in trattamento. Decisero di abbandonare la comunità terapeutica. Io ci rimasi male perché con questo ragazzo avevo creato un rapporto molto forte. Ero giovane e le cose le prendevo un po’ più di pancia. Quando li ho visti allontanarsi con la valigia ho detto loro che stavano facendo un errore: li ho giudicati in modo aspro. Invece questi ragazzi ora sono felicemente sposati. Hanno dei bambini, lavorano entrambi, sono una famiglia sana, ci sentiamo ancora. Ho compreso che non sempre i progetti dipendono da noi, a volte la vita prende strade diverse. E noi educatori dobbiamo usare il buon senso ma senza giudicare.

Com’è la vita a “Casa di Ismaele”?

A “Casa di Ismaele” cerchiamo di conservare un clima familiare. Ovviamente ci sono delle regole da rispettare. È pur sempre una struttura in cui vivono ragazzi lontani dalle proprie famiglie, e questo bisogna tenerlo presente. Però in linea di massima c’è un clima sereno. C’è chi lavora, chi studia, chi prende la patente. I rapporti con gli educatori sono rapporti di vicinanza e di condivisione di spazi e di attività, sia ludiche sia di lavoro. Non è tutto rose e fiori, a volte ci si scontra: ma anche questo fa parte della vita che germoglia e che cresce.

Nel contesto sociale di Rogliano come sono accolti i ragazzi di “Casa di Ismaele”?  

In linea di massima sono accolti bene perché i ragazzi sono stati bravi a inserirsi nel tessuto sociale con grande prudenza, a volte anche troppa. Infatti, spesso c’è una certa resistenza anche da parte dei ragazzi a integrarsi, non tutti hanno intenzione di rimanere qui. E certo poi c’è da fare un po’ di lotta al pregiudizio.

Com’è lavorare “per l’inclusione” di questi tempi?

Non è facile: i pregiudizi hanno alzato il tiro e a volte inaspriscono i toni e le distanze tra i ragazzi che provengono da paesi stranieri e noi italiani. L’inclusione trova delle resistenze da parte del tessuto sociale ma trova anche le normali difficoltà di questi ragazzi a integrarsi. Bisogna considerare che hanno delle esperienze di vita forte alle spalle.

Imprenditori o famiglie che aderiscono al programma Fare Sistema Oltre l’Accoglienza come interagiscono solitamente con i ragazzi?

Ci sono delle famiglie che gravitano intorno a “Casa di Ismaele” però sono ancora dei timidi passi verso una piena partecipazione alla vita di questa casa. Si vede però all’orizzonte la possibilità di creare una rete importante e collaborativa. Per quanto riguarda gli imprenditori, ovviamente noi scegliamo imprenditori che abbiano un’etica produttiva vicina ai valori del nostro centro e che condividano l’approccio e gli obiettivi di Fare Sistema. Per cui con gli imprenditori si hanno dei buoni rapporti.

Cosa significa per te la parola “accoglienza”?

Non vuole essere una frase fatta, ma per me “accoglienza” è tutto. Se non si accoglie non si può iniziare un processo educativo di inserimento in un tessuto sociale e culturale. Non si può generare cambiamento. Prima bisogna accogliere l’altro in tutti i propri bisogni e con le proprie difficoltà e i propri difetti: solo quando una persona si sente accolta è disposta anche a farsi guidare.

I percorsi di inclusione promossi da Fare Sistema Oltre l’Accoglienza si basano sull’attivazione e il coinvolgimento di reti locali costituite da attori della società civile, perché secondo te è così importante continuare a fare rete? È possibile sperare che integrazione e multiculturalità diventino sempre più diffuse?

Fare rete è importantissimo, è alla base di ogni contesto socio-educativo. La rete dei nostri rapporti deve essere sempre viva. Non si aiuta da soli un ragazzo: è un insieme di persone, di famiglie, di strutture che lo aiutano. L’accoglienza deve diventare cultura e dobbiamo cominciare dalle scuole, dalle famiglie, dai bambini. Dobbiamo mostrare la diversità come unicità e originalità delle persone.  E non come strumento di discriminazione. O di paura.

 

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