“Sono diventato mediatore e sono felice”

Kebba ha venti anni e oggi fa il mediatore presso la Fo.Co. di Vittoria (Sicilia), una cooperativa che si occupa di assistenza a comunità per minori e a progetti SPRAR, [...]
Kebba ha venti anni e oggi fa il mediatore presso la Fo.Co. di Vittoria (Sicilia), una cooperativa che si occupa di assistenza a comunità per minori e a progetti SPRAR, tra i promotori del programma Fare Sistema Oltre l’Accoglienza. Paola, l’educatrice siciliana che lo segue, dice di lui “con la sua dolcezza riesce a conquistare la fiducia di tutti”. Kebba parla benissimo l’italiano. Questa è la sua storia

Kebba da dove vieni? Quando sei arrivato in Italia?
Vengo dal Gambia. Sono arrivato in Italia nel 2016. Prima sono stato a Reggio Calabria, poi qui a Vittoria, in Sicilia, dove vivo da tre anni. Ho trovato una vita bellissima. Ho imparato tante cose. Faccio il mediatore e gioco a calcio. La mia vita in Italia è iniziata tutta con la Fo.Co. Nei primi tempi non volevo fare niente. La mia educatrice, Serena, mi diceva: “Sei bravo, ma non vuoi fare niente. Devi fare qualcosa per cambiare”. Io la notte non dormivo e pensavo che queste persone mi stavano dicendo cose giuste.

Come sei diventato mediatore?
Quando mi hanno proposto di fare il mediatore mi hanno detto che ero in grado di farlo, ma io non ero sicuro. Ho seguito un corso, ho studiato tanto, e ce l’ho fatta. Non è un lavoro facile. Anzi, è un po’ facile e un po’ difficile. Io cerco di essere sempre una persona vera, ogni ragazzo ha la sua storia e un mediatore deve sapere prima di tutto ascoltare, non solo tradurre. All’inizio avevo un po’ di paura: i ragazzi che vengono in Italia hanno tanti problemi e spesso non sono capaci di raccontare quello che hanno dentro, quello che hanno vissuto prima di lasciare l’Africa. Noi mediatori dobbiamo prima di tutto lavorare sulla fiducia, altrimenti non si può fare niente.

Cosa ti piace fare oltre al tuo lavoro?
Mi piace giocare a calcio. Un giorno qui a Vittoria, ero arrivato da poco, sono uscito con un mio amico che doveva andare a fare un allenamento. Io lo aspettavo fuori, e mentre aspettavo giocavo con il pallone, da solo. Il mister mi ha visto e mi ha detto: “Domani puoi venire anche tu agli allenamenti? Si vede che sei bravissimo”. Gli ho detto va bene, proviamo. Così sono andato e mi hanno preso nella prima squadra di Vittoria. Mi hanno dato fiducia. Adesso la squadra è come una famiglia. Io gioco come difensore, qualche volta in centrocampo. Ma quando gioco sono un po’… cattivo… da cartellino rosso.

Hai incontrato difficoltà nel tuo percorso di inclusione a Vittoria?
Quando vado in giro per Vittoria mi sento libero, non ho mai avuto problemi di razzismo. Questa cosa del razzismo… dobbiamo lavorarci anche noi africani. Dobbiamo imparare soprattutto la lingua italiana e cambiare un po’ anche la nostra cultura. Ti racconto questa storia. C’era un ragazzo che voleva comprare un profumo e mi ha chiesto se lo potevo aiutare, perché non voleva entrare nel negozio. Diceva che non parlava bene l’italiano. Ma secondo me aveva paura. Allora sono andato io a comprargli il profumo. Mi hanno chiesto come ti chiami, da quanto tempo sei in Italia. Ho risposto e ho detto che il profumo in realtà era per il ragazzo che aspettava fuori, non era entrato per paura. Non c’è stato nessun problema.

Chi hai lasciato in Gambia?
In Gambia ho tre fratelli e una sorella, io sono il più grande. C’è mia mamma, che ora è più contenta. Prima, quando stavo in Libia, era preoccupata. Ora mi dice: “Sono sicura che ce la farai, Kebba, ti conosco benissimo”. Mia sorella è piccola, va a scuola.

Che progetti hai per il futuro?
Io non ho paura del futuro, voglio restare qui. In un altro posto dovrei ricominciare tutto daccapo. Voglio andare avanti, perché la vita non si ferma mai. Sono single e sono pazzo del caffè, la “medicina nera”. Le persone qui mi danno una mano, anche due. Non mi sento solo. Voglio prendere il diploma. Paola dice che devo prendere anche la patente. Io so già guidare: in Africa si può guidare anche senza patente. Qui le regole sono diverse. Per questo dobbiamo imparare tante cose.

La storia di Kebba  dimostra che ci si può creare una rete di affetti, di amicizie e di lavoro per ricostruirsi una vita in un Paese diverso da quello di origine. Kebba lo fa ogni giorno, per sé e per gli altri.
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